Come comprendere l’evoluzione dei free party in risposta alla repressione?
Come resistere al controllo e all’iper-sorveglianza?
Come organizzare la prossima occupazione in cassa dritta?
Incognita K spiega e accompagna questo difficile passaggio attraverso una ragnatela di saggi e testimonianze in cui si mischiano cospirazioni psichiche alterate e lucide analisi sociali, un testo critico che si pone dei quesiti su come evitare l’onda di demenza diffusa che si sta abbattendo sul nostro presente.
Alla ricerca dell’incognita con la sua autrice…
Dopo il decreto “anti-rave”, l’approccio politico alle feste è diventato decisamente più esplicito in risposta alla repressione del governo. Esporsi e raccontarsi sono diventati modi per contrastare una narrazione distorta dai media e dalla politica.
L’efficacia di queste azioni si è riversata nelle strade e sotto cassa, ridando energia al movimento. Allo stesso tempo, i mezzi di comunicazione moderni (social e simili) si scontrano con quell’approccio che vedeva la visibilità come un rischio. Come scrivevano in Fikafutura 1 (1997): “…è terminato il tempo della propaganda, la visibilità è un pericolo. Il percorso torna sotterraneo e nascosto, irraggiungibile agli occhi dell’autorità.”
Come possono coesistere queste due prospettive?
Ana: Questa è una domanda davvero molto interessante perché è stata una delle prime questioni che abbiamo affrontato come movimento dopo il 633-bis, durante le prime assemblee nazionali, quando si discuteva di come ripensarCi e di come ripensare le pratiche, le strategie di difesa e le tattiche di invisibilità. Partendo dal presupposto che viviamo nell’apice dell’ipersorveglianza, dove sembra quasi impossibile pensarsi fuori dai radar e dalla grande Mappa, e dove l’algoritmo sembra anticipare persino il pensiero o il desiderio, mi aggrappo a una parola chiave, a un fattore imprescindibile a partire da cui ripensare tutto, continuamente: la consapevolezza. Ogni parola, ogni immagine, ogni informazione è un’arma a doppio taglio: può certamente compromettere ed esporre, ma può anche essere un’arma di autodifesa e di autonarrazione. C’è un abisso tra l’atto politico e la società dello spettacolo. È necessario far spazio a voci e occhi interni e consapevoli che si dedicano alla costruzione di una memoria collettiva e di un’autonarrazione politica, ma è altrettanto necessario proteggere tutto questo… La consapevolezza è la protezione, la consapevolezza è lo scudo. Sappiamo quali sono i nomi dei nostri nemici e quali sono i loro strumenti, e sappiamo quali sono le strade per disertarli ed evaderli. Anche se non è un processo così lineare, la domanda è ancora in atto perché le strategie si trovano praticando… ci sono canali che tutelano ancora la cospirazione, ma è anche vero che il movimento ha alzato il conflitto scegliendo di occupare posti in mezzo alle città, davanti agli occhi di tutti e di tutte. Quindi, la questione dell’in/visibilità è, prima di tutto, una questione di difendibilità del satori, come dice Hakim Bey, ovvero di quell’atto di realizzazione da cui la TAZ sorge.
Nella narrazione del libro, le emozioni e gli svarioni autobiografici sono estremamente affini alle esperienze raccontate, in oltre trent’anni, dalle diverse generazioni che hanno attraversato il mondo delle feste. Ciò conferma che la TAZ (come perfettamente descritto nel libro) genera uno spettacolo che si ripete identico e diverso ogni volta che inizia a carburare.
Nella sua trasformazione costante, il rave diventa qualcosa che non può essere definito. Massimo Canevacci, in Roma Illegale (Andrea Scarcella, 2021), lo esclude persino dalle controculture, perché fin dagli esordi, i free party facevano parte di quelle culture che non andavano più contro il potere stabilito, politico o religioso; erano culture altre, che andavano oltre il conflitto con il potere.
Perché oggi è diventato fondamentale rivendicare la festa come atto politico e conflittuale? Credi che le parole di Canevacci possano ancora rappresentare i rave di oggi?
Ana: Per me la festa ha sempre avuto la sua condizione di esistenza nel conflitto perché la sua assoluta alterità e la sua assoluta estraneità a qualsiasi definizione o tentativo di contenimento l’hanno sempre resa un pericolo per l’ordine costituito. È vero che le origini ci parlano anche di un certo escapismo, ma non riesco a fare a meno di pensare che dire festa è dire rivolta. Rivolta e non rivoluzione, e per me la differenza sta nel fatto che mentre la rivoluzione può situarsi ancora entro il tempo storico, la rivolta lo sospende, un po’ come il piano metastorico di Ernesto de Martino, quel regime di esistenza protetta in cui l’essere riconfigura simbolicamente la propria organizzazione corporea – attraverso la catarsi – e la propria esperienza soggettiva e collettiva. Quindi rivolta e non rivoluzione perché la festa non si cala mai nel trascorrere della storia – sebbene sia ben presente rispetto al proprio tempo storico -, piuttosto distrugge ogni simbolo del potere e del dominio. Poi si può andare anche oltre nella questione, facendo riferimento alle riflessioni di Jesi che ci rammenta che anche il tempo mitico della rivolta ha una durata che prevede la re-instaurazione del dominio storico-borghese dopo la sua interruzione, e anche Hakim Bey continuamente ci ricorda che la TAZ è un’intensificazione della vita quotidiana che procede per interruzione. Ma per me la festa è proprio il superamento del binomio storia/mito che diventa una guerriglia trasformativa continua perché dopo la festa ciò che rimane è la distruzione dell’io come espressione delle forze borghesi e quindi una nuova coscienza collettiva simpoietica. E oggi è di nuovo fondamentale rivendicare la natura politica e conflittuale della festa perché la festa è una necessità autoevidente, è tutto il contrario del corpo fascista: è un corpo mutante, meticcio, inclusivo, sovversivo, queer, anarchico, nomade, senza nome e senza volto, clandestino e soprattutto illegale, perché l’illegalità è posizione politica ben precisa. È necessario rivendicare la festa perché crea uno spazio in cui praticare alternative comunitarie, perché allarga lo spazio di autonomia e lo fa in una maniera trasversale e radicale, senza mediazioni, solo azione pura, pura sovversione.
In Inghilterra, dopo il Criminal Justice Act, c’è chi è sceso in piazza (Reclaim the Streets) e chi è migrato verso l’Europa (Spiral Tribe, Desert Storm…) portando i free party in luoghi dove la festa libera non era ancora criminalizzata.
Allo stesso modo, in Italia c’è chi è sceso in piazza (Smash Repression) e chi, sia tra i partecipanti sia tra le crew, ha scelto di migrare all’estero dopo il decreto, in cerca di contesti in cui il rischio di processi, sequestri e denunce fosse più basso.
La scelta di evitare lo scontro diretto e di cercare un’alternativa al conflitto non potrebbe essere interpretata come una possibile lettura della definizione seguente di TAZ scritta da Hakim Bey nel suo libro omonimo?
“Non stiamo cercando di vendere la TAZ come un fine esclusivo in sé, che prenda il posto di tutte le altre forme di organizzazione, tattica e scopi. La raccomandiamo perché può procurare la qualità di arricchimento associata alla sollevazione senza necessariamente portare alla violenza e al martirio. La TAZ è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare”
Ana: Secondo me la questione principale al giorno d’oggi è che non si può più evitare lo scontro diretto cercando un’alternativa al conflitto perché sono cambiate le modalità con cui si va in festa. Dopo il 633-bis e il dl sicurezza ci stiamo confrontando con uno scenario estremamente distopico che ha reso evidente il monopolio della violenza dello Stato e delle forze del dis/ordine. E questa tempesta non riguarda solo l’Italia e/o i movimenti dei free party, ma riguarda tutti e tutte e riguarda qualsiasi aspetto della vita, dall’abitabilità, alla cultura, alla sanità, all’autodeterminazione. Qui si rischiano accuse di terrorismo se si supporta la resistenza palestinese e ci si oppone al genocidio, non so se mi spiego…Non abbiamo mai cercato lo scontro diretto, ma ormai mi sembra inevitabile e il decreto sicurezza non ha fatto altro che rafforzare ed espandere lo spazio di autonomia della gestione poliziesca delle piazze e degli interventi. Lo abbiamo visto con la taz Mutazioni di Torino, esattamente un giorno dopo il dl sicurezza, e lo abbiamo visto qualche settimana dopo con il Free Spring in Trentino, dove hanno tentato di sgomberare una festa di notte lanciando una quantità indescrivibile di lacrimogeni… avete idea di che cosa significa sgomberare una festa di notte? Significa cercare l’incidente e la giustificazione dell’abuso di potere. Ed è successa la stessa cosa al Witchtek di Modena di quest’anno, dove siamo stati tenuti in sequestro per ben 13 ore, dopo essere stati caricati e riempiti di fumogeni ad altezza uomo perché volevamo letteralmente lasciare lo spazio e tornare a casa. Hanno impedito anche il passaggio dell’ambulanza per chi era stato ferito. Dobbiamo capire che non si può più fare festa con la stessa rilassatezza di prima. Dobbiamo capire che il gioco è cambiato e che ciò che ci viene richiesto è l’assunzione del conflitto come condizione di esistenza, è la corresponsabilizzazione, la difesa della festa, le strategie di azione, la lucidità e la prontezza per proteggere lo spazio e per proteggerci a vicenda. Bisogna essere presenti, nel senso che bisogna presentificarsi per non essere risucchiati dal baratro storico che ci si è aperto davanti. Oggi in festa devi venire preparato e pronto allo scontro perché è quello che riceviamo di base. Punto. Il nostro obiettivo è sempre partire e tornare insieme. Non possiamo venire meno.
Oggi, nel momento in cui è lo Stato stesso che ha trasformato i rave in una questione di propaganda politica, il conflitto diretto con esso non può far nascere quello scontro tra fazioni tipico della politica tradizionale?
Ana: Lo Stato non ha trasformato i rave in una questione di propaganda politica, lo Stato ha provato a creare – e questo già prima del 633bis – un corpo deforme a pseudo-immagine e somiglianza dei free party per poter giustificare le proprie leggi repressive attraverso la creazione di un nemico pubblico facile da gettare in pasto agli sciacalli perché rappresenta l’alterità per eccellenza e perché, sostanzialmente, a noi nessuno ci ha mai difeso, visto che siamo stati declassati a “lotta di serie B” anche dagli ambienti che, in teoria, dovrebbero supportare sempre la lotta dell’altro. Resta il fatto che comunque anche la narrazione deformante di propaganda sta crollando sotto il suo stesso peso perché non funziona più e dopo il Witchtek di Modena 2025 questa cosa è diventata ovvia: l’opinione pubblica ha cambiato visione e le mitologie dei piani alti non reggono più. Non ci vedo il pericolo di scontri tra fazioni tipiche della politica tradizionale, quello che vedo sono piazze piene, strade bloccate, stazioni e autostrade occupate, sottocassa pieni… vedo solo un potere che sta rivelando la sua assoluta inefficacia e vedo leggi che hanno rivelato la loro assoluta inutilità. Le loro politiche di sorveglianza e contenimento non stanno funzionando. I nostri nodi meticci invece si stanno rafforzando, e con loro la nostra assoluta radicalità. Non siamo fazioni, anzi, siamo più contaminati e mettici di prima e soprattutto siamo ovunque: dalle periferie, al sottocassa, al mediterraneo.
Un concetto che mi ha affascinato molto sono state le riflessioni sull’importanza della fine di una festa. Riporto testualmente: “Mi rendevo conto che la natura della TAZ consiste anche in un’interruzione, e che è proprio grazie a questa che il desiderio, la cospirazione, può continuare e perdurare.” Immaginando che ne esista uno, quale potrebbe essere il nesso che lega la tekno/techno, come musica ripetitiva e costante, al concetto di TAZ, una pratica che invece necessita di discontinuità per essere compresa e per dimostrarsi efficace?
Ana: Questa domanda mi sembra un quadro di Escher, ma forse tento di rispondere con la natura rituale della festa. Ci sono alienazioni e alienazioni, e quando l’alienazione non è prodotta dalla coazione a produrre e dalla ripetizione industriale oppure quando è slegata da una condizione patologizzata, allora può essere vissuta come riconnessione. Vedi il rito come cura per la crisi della presenza, ancora una volta Ernesto de Martino e il piano metastorico. Che cosa succede durante il rito? Che attraverso una discontinuità con il piano storico temporale lineare si entra in un regime di esistenza protetta dove il soggetto può integrare dei contenuti complessi della coscienza e riconnettersi profondamente a se stesso, in questo modo, ritrovarsi – l’individuo si abbandona alla perdizione per ritrovarsi. È una sorta di s/radicamento e avviene tutto simultaneamente, è una lontananza che per quanto lontana è innanzitutto vicinanza. Attraverso l’interruzione l’essere può continuare a permanere.







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